PERCHÉ RIFIUTO LA PSICOANALISI ANCHE COME METODO TERAPEUTICO
Dopo un'intervista al periodico «Psicologia oggi» in cui dichiaravo — era l'aprile del 1987 — il mio distacco dalla psicoanalisi, mi è stato ripetutamente chiesto se non dovevo proprio alla psicoanalisi i mezzi che mi hanno consentito di metterla in discussione. Oggi posso rispondere con un chiaro 'no' a questa domanda. Però nell'introduzione alla prima edizione di // bambino inascoltato ero ancora prigioniera di quell'errore. La successiva evoluzione delle mie concezioni mi ha però inequivocabilmente mostrato che la psicoanalisi è un labirinto da cui è assai difficile trovare una via d'uscita. Senza l'apparente aiuto della psicoanalisi, che contribuisce a respingere la presa di coscienza di quanto è accaduto in passato, avrei indubbiamente trovato prima la mia via verso la verità.
Debbo il mio primo risveglio ai quadri che ho cominciato spontaneamente a dipingere nel 1973. Eppure, anche diversi anni dopo, nel 1981, esitavo ancora a capire con sufficiente chiarezza che era stata proprio la psicoanalisi a tenermi lontana dai sentimenti che mi erano stati bloccati nell'infanzia, e di conseguenza anche dalla verità. L'ho scoperto solo quando, grazie al metodo di Konrad Stettbacher, mi sono potuta sistematicamente accostare, passo dopo passo, alla mia infanzia.
Quel che maggiormente mi persuade in questo metodo sono la disponibilità che mostra verso la creatività, e poi la sua precisione, l'efficacia, la sua verificabilità e il rispetto che ha per l'unicità e la singolarità d'ogni specifica esistenza e della sua storia; inoltre la sincerità, e cioè il suo essere esente da pretese educative, dogmi e ideologie. Poiché consente di percorrere la strada che porta alla realtà senza temerla, è immune da menzogne, da ogni forma di compromesso con la menzogna, è esente da cliché, da norme moralizzanti, da mistificazioni spirituali e da qualsivoglia altra infiocchettatura ideologica che vi possa essere connessa.
Invece questi fattori sono palesemente riscontrabili nella psicoanalisi, e ne ho offerte le prove nei miei libri precedenti. Oggi lo so: è stata un'illusione pensare che fosse possibile estirpare i relitti pedagogici dalla psicoanalisi tanto da renderla ancora praticabile per la liberazione di persone bisognose d'aiuto. E non è un caso che la psicoanalisi non abbia finora intrapreso alcuna forma di revisione del pedagogismo che le è connaturato; non può farlo, perché non appena le si tolga lo scheletro pedagogico, l'intero edificio crollerebbe come un castello di carte. L'intento pedagogico della psicoanalisi serve solo a rendere inconoscibili i traumi dell'infanzia: e quindi come si può pretendere che possa aiutare quelle persone che sono state in passato dei bambini maltrattati? Questa inadeguatezza non si palesa solo nella teoria, ma anche in ogni singolo dettaglio di una tecnica che è impraticabile per la ricerca della verità.
Benché taluni analisti cerchino di non manipolare i loro pazienti nel senso suggerito dalle loro teorie e dalla loro morale pedagogica, e di assecondarli invece nella scoperta della loro storia personale, finiscono necessariamente col fallire quando lavorano col metodo delle libere associazioni. Questo metodo, che è poi anche regola fondamentale della psicoanalisi, rafforza la difesa mentale contro i sentimenti e contro la realtà, perché fino a che ci si limita a parlare dei sentimenti, questi non si possono autenticamente esperire. E finché non li si esperisce, continuano a sussistere i blocchi autolesivi.
Entrambe le regole fondamentali della psicoanalisi — lo scenario (setting) e il metodo delle libere associazioni — presumono inoltre che vi sia da un lato un interprete superiore e consapevole, e cioè l'analista, e dall'altro il paziente inconsapevole, al quale l'analista spieghi la sua situazione, i desideri, i pensieri e gli impulsi inconsci. Perché l'analista sia messo nella condizione di farlo, occorre che il paziente gli scopra, gli sveli, gli tradisca in un certo senso, il proprio inconscio con l'ausilio delle libere associazioni (cfr. A. Miller, // bambino inascoltato, pagg. 245-252). La struttura autoritaria dell'educazione resta dunque acriticamente conservata in entrambe le regole fondamentali. Già prima dell'analista, anche i genitori si arrogavano il diritto di dire al bambino, dal loro punto di vista, come si sentiva e cosa doveva sentire, e il bambino credeva che loro lo sapessero meglio di lui.
Sulla base di questo modello pedagogico, che è inscindibilmente implicato nei costrutti freudiani, gli analisti apprendono durante la loro stessa formazione a discutere e a 'capire' i sentimenti dei pazienti, ma non a esperire essi stessi questi sentimenti. Non è dunque il caso di stupirsi che poi non sappiano renderlo possibile nemmeno agli altri. Il paziente se ne accorge e, di regola, non osa far affiorare i propri sentimenti (cfr. A. Miller, // dramma del bambino dotato, pagg. 22 segg.). E se poi per caso cerca di farlo ugualmente, forse perché ha letto alcuni libri che gli hanno offerto una prima via d'accesso alle proprie sofferenze, imparerà presto, nel corso della prassi psicoanalitica, a disciplinare la sua ansia, a catalogarla e a manipolarla con parole astratte, per potersi poi di nuovo 'sentire meglio'. Il paziente si accorgerà che gli interpreti dell'anima si sentono minacciati dai sentimenti, perché hanno appreso — nella loro concezione — solo a difendersene: e farà di tutto per non esporre alla minaccia dei sentimenti questi surrogati di genitori. Si assoggetterà al loro metodo delle libere associazioni mentali, si limiterà a parlare con loro dei suoi sentimenti e non saprà di abbandonarsi, così facendo, a una vana, pluridecennale peregrinazione in un labirinto, mancando così l'occasione di vivere. Perché la sua vita impietrita può risvegliarsi solo quando comincia dentro di lui il confronto fra il bambino che egli è stato e coloro che hanno causato le sue sofferenze; quando il paziente smette di filosofare e di chiedersi perché i suoi genitori gli hanno fatto questa o quell'altra cosa, e comincia invece a scoprire e a sentire, con l'aiuto di numerose traslazioni, che cosa gli hanno specificatamente fatto; quando è in grado di confrontare, nella terapia, i genitori interiorizzati con la sua sofferenza; quando, infine, a ogni nuova sofferenza che gli ricorda quella passata, cerca di dirsi dentro di sé cosa prova e sottopone a verifica questa situazione. Esattamente come ha fatto Daniel. Quello che il bambino non traumatizzato può esprimere nella realtà immediata alle persone con cui è in relazione, la persona adulta, un tempo traumatizzata, deve essere in grado di sperimentarlo e di imparare a farlo nell'ambito protetto e sicuro della terapia. L'esposizione che Stettbacher farà del suo metodo consentirà di vedere come questo avviene nei dettagli. Si può autenticamente chiarire la propria situazione e si possono dissolvere le proprie paure solo quando si è messi nella condizione di provarle, e non solo di discuterci sopra. Soltanto in quel caso si solleva il velo, e si realizza ciò di cui si ha veramente bisogno: non d'un tutore, d'un interprete, d'un disorientato-re; si ha bisogno dello spazio per crescere e dell' accompagnamento d'un testimone consapevole durante il lungo viaggio che si è intrapreso.
Quando non si abbia mai personalmente imparato a sentire, a provare i propri sentimenti, non ci si rende conto di impedire agli altri di sentire, né di come glielo si impedisce. Basta, per esempio, che l'analista spieghi al paziente lo stato di necessità dei genitori o di altre persone, perché il paziente metta subito a tacere tutti i suoi latenti rimproveri. Cessano di esistere in lui, non li avverte, sente solo compassione per coloro che hanno causato la sua angoscia. Perché non puoi provare la sofferenza e contemporaneamente comprendere perché ti è stata inflitta: non la senti più, semplicemente. Ho impiegato degli anni per distogliermi da quest'atteggiamento 'comprensivo'. L'abitudine di origine psicoanalitica di operare mediante le libere associazioni mentali è stata il maggior ostacolo nella mia stessa terapia. La libera associazione ha continuato a consentirmi di elaborare sempre nuove spiegazioni razionali, mentali, per trame così una presunta visione d'assieme. Questo m'aiutava a sottraimi al doloroso confronto coi miei genitori, tappava cioè tutti i buchi attraverso i quali avrei potuto guardare alla realtà della mia infanzia. Finché sono stata in grado di dare un nome ai miei sentimenti, ho conservato il controllo sulla bambina in me e le ho impedito di trovare il suo linguaggio, il linguaggio delle sensazioni e dei sentimenti fin lì inespressi. È stata la tecnica dei quattro passi che mi ha aiutata ad accorgermene, perché ho constatato che tendevo spesso e significativamente a sorvolare sui primi due di questi passi. Mi ci è voluto parecchio tempo prima di riuscire a consentire alla bambina in me di esprimere le sue emozioni e i suoi sentimenti e di concederle il tempo necessario per farlo. Però ha potuto provare emozioni e sentimenti solo quando la parte adulta, educata di me glielo ha permesso senza ostacolarla con spiegazioni e associazioni. Quest'esperienza mi ha aiutata a scoprire che Freud ha creato, col suo metodo, un sistema per l'autoinganno che funziona ottimamente nell'interesse della rimozione. Chi non vuoi conoscere la verità sulla propria vita, troverà aiuto nella psicoanalisi. Lo aiuterà in ogni caso a rafforzare l'antico sistema di difese contro i traumi subiti nell'infanzia e a non trovare mai la verità sull'accaduto. Esiste una vasta gamma di possibilità per tenere lontana da sé la sofferenza ricorrendo a considerazioni razionali, e per accantonare le realtà della vita con l'aiuto d'un linguaggio apparentemente in grado di definirle. Proprio questo è stato l'obiettivo della filosofia di Martin Heidegger. Egli si è accostato a ciò che aveva un tempo dolorosamente provato e poi represso, ricorrendo solo a considerazioni razionali astratte, che escludevano ogni sentimento del bambino, perché il bambino aveva invece riconosciuto il meccanismo dell'autoinganno. Per Heidegger non esisteva un dualismo fra passione e pensiero, ma soltanto un pensare appassionato che non si muoveva verso la verità come al risultato del processo mentale, ma costituiva già di per sé la meta. Per chiarire questo suo concetto, pare che in un'occasione abbia detto ai suoi studenti, nell'introdurre una lezione su Aristotele: «Aristotele nacque, lavorò e morì.» In altre parole, voleva dire: quello che conta è l'opera d'un filosofo, non la sua vita.
Ancora qualche anno fa avrei forse pensato che, dopo tutto, si potrebbe considerare innocuo e irrilevante l'errore di Heidegger, almeno finché la sua filosofia non sia utilizzata per confondere le masse (cfr. A. Miller 1988 a, cap. 1). Oggi però non ne sono più certa, perché nel frattempo ho avuto delle prove contrarie: fra l'altro, le lettere di alcune studentesse di filosofia che mi hanno scritto d'aver compreso per la prima volta, grazie alla lettura dei miei libri, come la filosofia le aveva distolte dalla verità. Le ha solo sollecitate, mediante complessi costrutti mentali, a non vedere di essere state delle bambine maltrattate. Nonostante la sofferenza che è a questo punto affiorata, sono contente che non sia loro definitivamente sfuggita la possibilità di vivere la loro vita, perché sono ancora abbastanza giovani per trame giovamento. «Pensando appassionatamente» all'«essenza della verità», un bambino può proteggersi per tutta la vita dalla tragica, intollerabile verità della sua esistenza: e finché non insorgano sintomi a dare l'allarme, la cosa finisce lì. Tuttavia la psicoanalisi è offerta, come via d'uscita dall'angoscia, proprio a persone afflitte da sintomi morbosi. Per questo occorre che la gente ne sia informata, affinchè non si aspetti di trovarvi una soluzione. Ciò che l'attende è, nel migliore dei casi, un labirinto dai sentieri ben curati, ma senza via d'uscita verso la libertà. È una prigione costruita con le teorie di un uomo che, cent'anni fa, si trovava nella stessa situazione angosciosa della maggior parte degli odierni pazienti. Un uomo che ha impedito a se stesso di guardare alle sofferenze della sua infanzia rifugiandosi nel giardino dei costrutti mentali e liberandosi così solo momentaneamente della sintomatologia. Però questa si è rimanifestata, nonostante gli sforzi sempre più intensi per conservare intatto l'artificioso edificio mentale.
Galileo Galilei perse l'uso della vista quando fu costretto dalla chiesa ad abiurare la verità che pur conosceva. Sigmund Freud ha invece vietato a se stesso di esprimere la verità che aveva scoperto. L'ha tradita dopo la morte del padre. Quando leggo che, in seguito, ha sofferto per un cancro al palato, che ha dovuto sottoporsi a ripetute operazioni, sino a morirne, non posso fare a meno di chiedermi se per caso il suo palato non si sia ribellato in nome della verità che Freud aveva rinnegato. Preciso comunque che è una domanda che pongo solo come un'ipotesi di cui, in assenza dell'interessato, non posso verificare il fondamento reale. Constato tuttavia che degli innumerevoli analisti che si compiacciono nel sottoporre quotidianamente ai pazienti le loro interpretazioni, nessuno — per quel che mi risulta — ha finora pubblicato un'interpretazione della malattia di Freud. È possibile che gli allievi di una tanto venerata figura paterna non si chiedano come mai questo 'padre' si è ammalato di cancro? Che si possano elargire interpretazioni solo alle persone dipendenti, ai bambini e ai pazienti? Non è un modo come un altro per ammettere che le interpretazioni sono armi da usare contro persone inermi, ma non contro la temuta autorità? I pazienti sono nutriti con ogni genere di costrutti mentali elaborati dal vecchio Freud, e s'illudono che costituiscano un autentico alimento. Sono disposti a credere a tutto, solo perché hanno bisogno di qualcuno che li stia finalmente ad ascoltare. E non si accorgono dell'abuso che si compie su di loro, perché chi non abbia sperimentato altro che abusi nell'infanzia, non è in grado di riconoscerli in quanto tali in seguito (cfr. A. Miller // bambino inascoltato, pagg. 25-32).
Freud, l'uomo che si era messo nella condizione di non poter più esprimere la verità, ha scritto invece un'intera serie di libri il cui stile ha stupito l'umanità e dal cui contenuto l'umanità s'è lasciata profondamente disorientare (cfr. A. Miller 1988 a, cap. 7). Il 'pensiero appassionato' non è dunque affatto così innocuo come sembra all'apparenza. Secondo me, tutto ciò che reprime la verità è distruttivo, anche se le conseguenze possono essere completamente comprese solo molto tempo dopo. Quando affermo che il terapeuta Konrad Stettbacher è riuscito a trovare una strada che conduce al bambino ferito che è nell'adulto, una strada che permette al paziente di parlare e di raccontare con l'aiuto dei sentimenti, e di concettualizzare poi tutto questo solo in seguito, non voglio con ciò dire che non possano esservi altri metodi che consentano di raggiungere l'obiettivo sulla base delle stesse regole scoperte in questa procedura. Lo si vedrà non appena saranno disponibili le relative pubblicazioni. Però una cosa è certa: poiché il bambino ferito che è in noi può esprimersi sui traumi che ha patito solo mediante le sensazioni fisiche e i sentimenti, occorre assolutamente che la terapia garantisca l'accesso a queste sensazioni e a questi sentimenti. Quest'accesso invece rimane del tutto precluso nei casi in cui — come avviene nella psicoanalisi — ci si accontenti di speculazioni razionali. Per quanto queste speculazioni impressionino e siano di moda, non vanno oltre il livello dell'autoinganno. I richiami a personaggi di fama come Freud, Jung, Adler o altri, così come l'applicazione delle loro teorie che accantonano i sentimenti e mascherano la verità, non possono assolutamente aiutare un terapeuta a liberare in modo duraturo il paziente dalla nevrosi. Non farà che allevare nuovi, ignari 'terapeuti' che rifiutano i sentimenti: che rimangono necessariamente ignari perché si aggrappano a finzioni, perché non analizzano ciò che è stato loro insegnato, perché hanno paura della verità e vogliono esercitare il potere. Obiettivo di una autentica terapia è invece quello di indurre il bambino ammutolito che è in noi a parlare e a sentire. Un po' per volta, il suo sapere bandito è riportato a galla, e nel corso di questo processo, col manifestarsi delle sofferenze patite e dei vincoli che ancora le condizionano, il paziente scopre la sua storia e, nello stesso tempo, se stesso e — liberandola dalle scorie che la soffocano — la sua capacità di amare. Una simile terapia può essere attuata solo da un terapeuta (uomo o donna) che non mantenga al bando il bambino che ha in sé e ciò che questo bambino sa, o che, quanto meno, sia sulla strada per giungere a questo obiettivo: perché vuole sapere a ogni costo la sua verità.